‘400 - Ballate, Barzellette, Strambotti. La musica in Italia nell’Umanesimo
La 15° edizione del Corso Internazionale di Musica Medievale coincide con i 40 anni di Micrologus e i 15 anni del Centro Studi Adolfo Broegg. Il tema di quest’anno sarà dedicato alle forme musicali dell’Italia dell’Umanesimo. Nell’ Italia del ‘400 convivevano molti generi musicali e stili, data la grande passione delle famiglie regnanti sulla penisola, per la musica d’oltralpe. I maestri di cappella delle corti più ricche e prestigiose come la corte aragonese di Napoli, gli Este a Ferrara, i Bentivoglio a Bologna i Medici a Firenze gli Sforza di Milano, la corte papale, avevano al loro servizio musicisti fiamminghi o del nord della Francia. La corte borgognona di Filippo il Buono (1420-1467) era uno dei centri culturali più importanti in Europa, molti dei compositori che passarono da lì sono poi gli stessi che hanno portato in Italia un vasto repertorio testimoniato dalle fonti manoscritte, principalmente franco-fiammingo. Musicologi illustri fin dai primi anni ’50 hanno cercato di capire perché il ‘400 sembrava essere un secolo senza musica e poesia italiane. Il titolo del libro “Il segreto del quattrocento” di Torrefranca, esprime in sintesi questo “mistero” che poi altri studiosi hanno provato a indagare, uno su tutti Nino Pirrotta. Il musicologo siciliano ha analizzato le ragioni possibili di questa apparente lacuna della musica italiana dell’umanesimo. Grazie alla sua primigenia intuizione che affermava il ruolo centrale della tradizione orale, si possono evidenziare certi repertori, anche regionali come le siciliane e le justiniane, che invece definiscono un vero e proprio stile italiano.
Pirrotta ha mostrato, con la sua ricerca, che i repertori italiani erano eseguiti ma che una grande parte di essi non è rimasta notata, vista la grande tradizione improvvisativa e di tradizione non scritta che ha caratterizzato quel periodo storico.
“La musica di cui noi facciamo la storia, la tradizione scritta della musica, può essere paragonata alla parte visibile di un iceberg, la maggior parte del quale resta invece sommersa ed invisibile. La parte che emerge merita certamente la nostra attenzione, perché è tutto quello che ci resta del passato e perché ne rappresenta la parte più coscientemente elaborata; ma le nostre valutazioni devono pure tener sempre presenti i sette ottavi dell’iceberg che restano sommersi, la musica della tradizione non scritta.”
Nonostante numericamente la musica franco-fiamminga sia predominante nelle fonti italiane, un numero consistente di brani in lingua italiana ci sono stati trasmessi.
Ballate barzellette strambotti e poi frottole, queste forme seguono in alcuni casi le regole compositive portate dai teorici d’oltralpe, ma molto spesso hanno un andamento più accordale che segue il testo poetico, il contrappunto è semplificato quasi a indicare una prassi di canto monodico accompagnato con uno strumento che intavolava le altre voci sotto il canto, alla mente. La lira da braccio, il liuto, la cetra, erano gli strumenti preferiti dagli umanisti, che rivedevano in essi l’antica tradizione classica del cantare sulla lira di Orfeo e di Apollo; questi erano meno interessati a quei “segnucci della musica” che caratterizzavano il rigore del canto polifonico ed il contrappunto ornato, erano più attratti dal cantar strambotti sonetti e capitoli su melode semplici e piane per far comprendere meglio il senso del testo.
Si analizzeranno le differenze tra i repertori italiano e franco-fiamminghi alla luce dei trattati del tempo, con un focus sul trattato di Johannes Tinctoris De inventione et usu musice (c. 1480-1483).
Il repertorio studiato è tratto da i codici: Montecassino 871, Escorial B, Perugia 431, Londra Egerton 3051, Milano Bibl. Trivuziana 55, Parigi 676, Firenze Biblioteca nazionale centrale, MS Banco rari 229, Firenze, Panciatichi 27, Capetown Grey.